Nicaragua. Noi donne, le invisibili.

Introduzione
(Associazione Italia-Nicaragua Circolo di Viterbo) 

1926 – Puerto Cabezas, Nicaragua

Le donne più degne del mondo
Sono le puttane di Puerto Cabezas.
Loro conoscono, per confidenze il letto, il posto esatto dove i marines nordamericani
hanno affondato quaranta fucili e le loro munizioni.
Grazie a loro, che giocandosi la vita, sfidano le truppe straniere di occupazione,
Sandino e i suoi uomini riscattano dalle acque, alla luce delle torce, le loro prime armi.

(Eduardo Galeano)

Questa pubblicazione sull’esperienza delle donne nella solidarietà internazionale, non nasce casualmente.

Fin dalla sua origine l’Associazione Italia-Nicaragua ha avuto, inevitabilmente, una particolare attenzione al mondo femminile, per la sua storia interna e per il ruolo svolto dalle donne durante la rivoluzione sandinista in Nicaragua.

Peculiarità, più volte ripresa, dal nostro Circolo di Viterbo.

Come non ricordare l’iniziativa svolta a Viterbo nel 1995, all’indomani della IV° Conferenza mondiale sulla donna di Pechino – Forum di Huairou; e successivamente nel 1997, a Celleno (VT), l’altra manifestazione sulle “Donne in America Latina”.

Entrambi realizzate con il patrocinio dell’Amministrazione Provinciale di Viterbo, all’interno del “Corso di Educazione alla Solidarietà”.

Così questa nuova pubblicazione, il cui filo rosso è quello della solidarietà tra donne, è possibile sempre grazie al patrocinio della Provincia.

Storicamente, ogni volta che sorge una rivoluzione dal basso, contro l’oppressione e per un radicale mutamento (“rivoluzione” è appunto un rivolgimento della società e del potere attraverso grandi spostamenti di masse), le donne ci sono sempre.

Sono state nella rivoluzione francese, in quella del 1848, nella Comune, nella rivoluzione d’ottobre o in quella cinese, algerina e cubana. Anche se non sempre con gli esiti sperati.

Olympe de Gouges, nella “Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina”, articolo 10, Parigi, 14 settembre 1791, affermava che:“La donna ha il diritto di salire sul patibolo; deve avere ugualmente il diritto di salire alla tribuna”.
Olympe salì sul patibolo, ma nessun altro diritto venne ottenuto dalle donne durante la rivoluzione francese.
Nel Nicaragua sandinista, le donne hanno combattuto come gli uomini già al tempo di Sandino, come la leggendaria “Amanda Aguilar”, morta nella povertà a 116 anni, nel febbraio 2007.

Il suo nome era Petrona Hernández anche se tutti la conoscevano come Amanda Aguilar.

Straordinaria è la storia di questa donna, la cui notorietà è dovuta al fatto di essere stata la più anziana di un gruppo di contadine che nella zona rurale di Jinotega, nel nord del paese, organizzò i primi sindacati per gli agricoltori e appoggiò la rivoluzione sandinista. È stata una storica collaboratrice di Sandino.

“Amanda è un esempio di onestà. Venne torturata crudelmente dalla Guardia Nacional di Somoza, ha perso figli e nipoti per la Rivoluzione. Alcuni assassinati dalla Guardia Nacional ed altri dalla Contras, la quale era comandata da ex guardie somoziste che oggi occupano cariche di governo o seggi in Parlamento.

Amanda è una donna di pelle scura, cotta dal sole e dal duro lavoro della campagna, di statura bassa, ma con un grande cuore rivoluzionario ed esempio dell’instancabile lotta antisomozista e contro l’invasione gringas ai tempi di Sandino.
A 115 anni cammina ancora appoggiandosi al suo bastone e ricorda i momenti duri che ha vissuto durante la repressione genocida.

Nella tappa di lotta per la liberazione contro il tiranno, nell’anno 1963, aiutò molti guerriglieri insieme alla madre che era già molto anziana, in un momento in cui anche dare un bicchiere d’acqua a un guerrigliero significava la morte sicura.

Nel 1968 entra a far parte del Sindacato Agricolo di Bijao Norte, ma a seguito di un forte operativo della Guardia Nacional che inizia a bruciare case e villaggi, si trasferisce a Zinica e poi a Santa Maria de Tasuà nella zona di Bocay insieme a vari guerriglieri tra cui Josè Benito Escobar.

Venne però scoperta e catturata sul Cerro del Aparejo insieme ad altre donne che collaboravano con la guerriglia, tra cui Maria Gonzàlez Hernàndez, Facunda Catalina Gonzàlez Dìaz, Angela Dìaz, Luz Marina Hernandez, Apolonia Gonzàlez Romero, Càndida Maria Gonzàlez Donaire ed Esperanza Hernàndez Garcìa.
19 donne catturate e trasferite nel Cuà dove c’era il Comando generale della Guardia Nacional.

Vennero torturate e molte di loro violentate e vennero anche assassinati i contadini Saturnino Gonzàlez, Juan Hernandez, Francisco “Chico” Gonzàlez (di cui parla la canzone di Carlos Mejìa Godoy) e la madre Marìa Venancia, che aveva già 120 anni.

Dopo sei mesi di prigione vennero mandate nella Hacienda El Carmen, avanposto della Guardia Nacional che si occupava delle operazioni contro la guerriglia e contro i suoi collaboratori e collaboratrici.

Alla fine vennero lasciate in libertà, con la promessa di assassinarle se avessero continuato ad aiutare la guerriglia, ma nonostante ciò continuarono nel loro lavoro di sostegno fino al trionfo della Rivoluzione.

Le gesta di Amanda Aguilar sono numerose e si potrebbe scrivere un libro, come quando prese in giro la Guardia Nacional che stava circondando la sua casa e cominciò a gridare “Adesso vedete, guerriglieri ladroni, glielo dico alla Guardia Nacional che state girando da queste parti…”. I soldati credevano davvero a queste parole e lasciavano in pace la sua famiglia”

(dal testo di Francisco Mendoza, da “El Nuevo Diario”).

La sua storia è stata resa immortale da una poesia di Ernesto Cardenal, sacerdote e poeta, nella quale risuona un’emozionata testimonianza delle persecuzioni sofferte per mano dell’esercito somozista e del coraggio di queste donne che sopportarono la tortura senza tradire i loro compagni di lotta.

 

Nicaragua, Amanda Aguilar, una donna del Cuá

 

Voy a hablarles compañeros
de las mujeres del Cuá,
que bajaron de los ceros
por orden del General. 

De la María Venancio
y de la Amanda Aguilar,
dos hijas de la montaña
que no quisieron hablar.

(…)

(Ernesto Cardenal)

Donne, che nella lotta, si sono battute come gli uomini, sono state trattate come gli uomini, sono state ammazzate come loro. Combattenti silenziose, tenaci, di molto coraggio e molto utilizzate; è stato così anche nella resistenza italiana.

A conferma, che nei momenti estremi le donne scendono sempre in campo. E vi scendono tumultuosamente, imparano e praticano cose non loro, colpiscono e soffrono colpi. E sempre scoprono di essere state private dei loro diritti e li domandano: quella ineguaglianza dei poteri che sembra tollerabile fin che il fiume della vita scorre nei suoi argini normali, appare loro bruciante quando la società ribolle, si muove e le getta nella mischia.

E poiché le donne portano nella rivolta tutta la loro radicalità, si può dire che un governo può ancora sperare di cavarsela quando in piazza ci sono solo gli uomini, ma quando da casa escono in massa anche le donne, per quel governo è finita.

Con questa pubblicazione vogliamo rendere omaggio, senza nessuna retorica, a quella ostinata capacità di tenere di soffrire, di non lasciarsi morire, di non lasciarsi uccidere, di resistere. Questa parola è resistenza. Parola che appartiene alle donne da millenni. Gli uomini vincono o perdono generalmente con grande schiamazzo; le donne resistono spesso in silenzio. Se qualcuno crede che questa sia solo una virtù passiva, provi a chiedere che ne pensassero tutte le dittature che hanno governato in America latina negli anni ’70.

L’identità femminile in Nicaragua (ma forse in tutti i paesi del Sud del mondo), è caratterizzata da due elementi, apparentemente opposti ma in realtà molto ben collegati: una forte disparità con l’uomo per quanto riguarda i diritti, il potere sociale, le responsabilità familiari e, d’altro lato, una tenace resistenza alle avversità, una capacità di reagire con straordinaria energia non appena se ne offra la possibilità.

“Come nella Grecia o nella Magna Grecia, l’uso di trasportare i pesi sulla testa ha conferito alla donna nicaraguense l’assoluta, suprema, statuaria eleganza del portamento. Una dura, prolungata servitù che le ha donato la regalità” (Carlo Carlucci, da “Intermezzo tropicale. Nicaragua”, edizione I Dispari, Milano 2006).

È così che in Nicaragua le donne che per secoli hanno subito un pesante condizionamento dalla mentalità patriarcale importata dalla conquista, hanno velocemente conquistato spazi di responsabilità e di riconoscimenti nella rivolta alla dittatura somozista, con la loro partecipazione coraggiosa e creativa alle azioni di resistenza e di opposizione.
Le successive sconfitte elettorali del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), hanno reso più difficile alle donne continuare il cammino per il pieno riconoscimento del loro valore e dei loro diritti, ma questo non significa che si siano fermate.

Anche senza l’appoggio dei governi (si veda anche la recente vicenda dell’abolizione dell’aborto terapeutico, di cui è stato vergognosamente protagonista FSLN), molte associazioni femminili portano avanti rivendicazioni di genere e nel contempo si uniscono agli uomini per difendere diritti comuni, così ex lavoratori e lavoratrici delle piantagioni di banane stanno lottando contro lo strapotere delle multinazionali, come i lavoratori e lavoratrici della canna da zucchero contro l’impresa nicaraguense del Grupo Pellas, come nelle maquilas, ecc.

Queste rivendicazioni si intrecciano, oggi come ieri, con la solidarietà concreta, viva, reale di tante donne italiane; di cui trovate testimonianza nella pubblicazione.

Ecco perché abbiamo fiducia che finalmente il mondo attuale, così ingiusto e feroce, si trasformi con l’impegno e la lotta di tutte le donne, in un mondo sociale.

 

Almeno fiori, almeno canti…
Di noi rimarrà
qualcosa di più che il gesto o la parola:
questo desiderio incandescente di libertà,
questa intossicazione,
è contagiosa!

(Gioconda Belli)

Prefazione

Né così sottomesse, né così silenziose

Nora Habed*

Sembra quasi una provocazione il dire che le donne in Nicaragua fanno parte del mondo invisibile che a poco a poco compare per cambiare il destino di un paese.

In Nicaragua, come nel resto dell’America Latina, le donne ci sono, se non altro perché sono la maggioranza, solo che la cultura patriarcale le fa appartenere al mondo dell’invisibilità, ma in modo contraddittorio.
Nel paese prevale il governo a maggioranza maschile, con mentalità maschilista. Ma ci sono anche le donne, sia quelle che continuano a riprodurre la cultura del dominio e del potere, sia quelle che con coraggio, oggi come ieri, continuano, nonostante tutto, a lottare per una società dell’uguaglianza e della parità.

Perciò non basta essere donna per realizzare il progetto delle donne, che sono, per natura, a favore della pace, della condivisione, della giustizia.

Il cuore di donna è una conquista condivisa sia dagli uomini che dalle donne sensibili nel creare un mondo diverso, uniti da una visione cosmica della vita che non ha frontiere né colore di pelle o di status.

Ha per questo un significato universale che crea rapporti tra tutti e tutte in qualsiasi parte del mondo in cui abitiamo.
Il quotidiano appartiene alla donna ed è soprattutto nel vivere di ogni giorno che nasce la consapevolezza della necessità di organizzarsi, di rivendicare i diritti, non solo quelli propri, ma quelli di tutto un popolo.

La donna nicaraguense lavora come la formica, instancabile e testarda nel continuare a ricostruire un cammino che porta alla base dei frutti condivisi.

Attualmente nel paese, una donna su tre è stata vittima di violenza sessuale o fisica almeno una volta nella sua vita, e le violenze sessuali continuano ad essere la causa principale delle gravidanze nelle adolescenti.

Il Movimento Autonomo delle Donne stima che le gravidanze precoci sono aumentate del 40%.

Ci sono numerosi casi di adolescenti, di 13-14 anni, in gravidanza.

Ogni dieci parti, quattro corrispondono a minorenni; per questo è aumentato il tasso di mortalità materna.

In Nicaragua, sono le donne, le prime, a pagare per le politiche approvate dal governo.

Ed è per questo, inevitabilmente, che le proteste inizino proprio a partire da lì: dalle donne.

Oggi, come ieri, si torna alle piazze per dare voce al silenzio del dolore e della sofferenza di chi ne è stato privato del più elementare dei diritti: il rispetto alla propria dignità.

Il Nicaragua si è sempre caratterizzato per la sua generosità e la sua creatività.

Il paese è pieno di artisti, di scrittori e di poeti che hanno cantato e descritto la rivoluzione.

Ora sono di nuovo loro, insieme alle donne e al mondo invisibile dei senza parola, che alzano la voce perché si possa convivere in un clima di giustizia, di pace e di speranza.

Questo libro riporta queste testimonianze, sia delle donne in Nicaragua, sia della solidarietà internazionale fatta con cuore di donna.

 

*Nora Habed, psicologa nicaraguense, tra gli anni 1980 e 1990 ha ricoperto l’incarico di Console, Primo Segretario, all’Ambasciata del Nicaragua presso la Santa Sede.

Attualmente è impegnata in progetti di solidarietà internazionale, soprattutto nel campo dell’educazione marginale).

Presentazione

Geraldina Colotti*

Nicaragua, 1983. “Ogni fabbrica, un’invincibile trincea sandinista”, recita il gigantesco murales. Vicino, alcune donne sorridenti imbracciano il fucile. E’ una delle foto contenute nella biografia di Ines Arciuolo, A casa non ci torno, edita nel 2007 da Stampa alternativa. Un titolo che riassume l’obiettivo irrinunciabile di tante donne delle classi popolari che, negli anni ’70, hanno lottato per la propria liberazione. Arciuolo, operaia comunista di origine napoletana, è stata nel gruppo dei 61 licenziati dalla Fiat a Torino nell’ottobre ’79. Tre mesi prima, i sandinisti avevano preso il potere in Nicaragua, dopo una lotta di liberazione durata 18 anni, in cui le donne erano state protagoniste di primo piano. Arciuolo si recherà a Managua qualche anno dopo, quando in fabbrica la resistenza del “popolo dei cancelli” sarà stata spezzata dalla scure delle grandi ristrutturazioni industriali e per lei non ci sarà più lavoro. Per cinque anni, tra esperimenti innovativi, difficoltà e contraddizioni, l’operaia italiana lavorerà nelle fabbriche nicaraguensi, alternando l’officina all’addestramento militare. Dal suo racconto, emergono figure di donne determinate e indipendenti, confrontate a un maschilismo nicaraguense difficile da sradicare, che vede minacciato il tradizionale ruolo maschile. Alcune di queste, compaiono in una pagina di fotografie, guardano avanti verso il futuro, ancora ignare del terremoto che di lì a poco avrebbe cancellato l’ossatura del nuovo stato e le conquiste popolari. Che cosa esprimono oggi quegli sguardi lontani? Quanto distante appare il viaggio di chi, come Ines Arciuolo, voleva vivere finalmente da vicino quel cambiamento radicale che in Italia era diventato un orizzonte impietosamente lontano? Con quali parole si esprime oggi quella “tenerezza dei popoli” cantata nell’82 da Gioconda Belli?
Domande che si riverberano anche in questo libro di inchieste, analisi e testimonianze, dedicato alla tenacia delle donne nicaraguensi dal circolo viterbese dell’Associazione Italia-Nicaragua. Nel capitolo Solidarietà al femminile, Edda Cicogna, del Gruppo Transcultura donna di Genova, racconta il suo primo viaggio in Nicaragua, compiuto nell’83. Scrive: “In tante, in tanti, trasferivamo nel popolo del Nicaragua, in cammino verso una realtà nuova, i nostri bisogni, la nostra volontà di cambiamento. Certo, oggi possiamo dirlo, abbracciavamo quella realtà in movimento con entusiasmo acritico. Avevamo bisogno di utopia, e la confondevamo con la realtà”. E, più avanti, per rinnovare il suo impegno nel presente anche a distanza di tanti anni, Cicogna dice ancora a proposito della rivoluzione sandinista: “Una rivoluzione armata, certo, ma che è stata capace, dopo la vittoria, di puntare sul recupero degli avversari piuttosto che sulla vendetta”… E in quel “certo… ma” si esprime la cesura e la distanza rispetto ai paradigmi del “dannato” Nocevento: il timore che anche la “rivoluzione dei buoni” – l’ultima del XX secolo, l’unica che ha lasciato tracce anche dopo la sconfitta e la fuoriuscita dai riflettori della storia – diventi innominabile insieme a quelle che hanno animato il “secolo dei totalitarismi”.

In Europa, buona parte della sinistra ufficiale aveva voluto leggere nell’esperimento sandinista soprattutto l’elemento del consenso ampio, la partecipazione della chiesa di base, l’abolizione della pena di morte, e la critica agli errori del “fochismo”: un azzardo che – si diceva prendendo a prestito l’espressione di Lenin -, in America latina aveva eletto “l’impazienza ad argomentazione teorica”. Ma l’Europa – con l’eccezione della Svezia – lasciò la “rivoluzione dei buoni”, di cui aveva lodato il percorso elettorale, alla mercé degli attacchi Usa e dell’inevitabile corrosione interna (del quadro dirigente sandinista e del consenso) in un paese sotto assedio. Fedeli al corso intrapreso, dopo la sconfitta elettorale del 1990, con un gesto senza precedenti nella storia delle altre esperienze rivoluzionarie, i sandinisti lasciarono il potere alle forze conservatrici. E i tre governi che seguirono – Chamorro, Alemán e Bolaños – dopo aver smantellato le precedenti conquiste popolari e le infrastrutture di uno stato nuovo, gettarono il paese in un baratro di povertà e corruzione.

Un dato catastrofico per le classi popolari, che però ormai pesava poco sulla bilancia teorica e politica di una certa sinistra italiana, tutta impregnata di “consenso” gramsciano, e ormai attirata solo dal disincanto di fare opinione.

Dannato o stinto il Novecento nella “notte in cui tutte le vacche sono nere”, dominava un revisionismo storiografico in cui le ragioni dei vinti posavano ormai alla pari con quelle degli oppressori. Prendeva piede il modello “ongizzato” dei rapporti Nord-Sud: la logica del “progetto” e del “sostegno”, al posto di una lotta alla pari contro il nemico comune. Si prevedeva, anche per il continente latinoamericano, l’insuperabilità dell’orizzonte socialdemocratico come alternanza al liberismo selvaggio, e ci si preparava a bollare come “caudillismo autoritario” la grande ripresa di sovranità nazionale che si sarebbe verificata con Hugo Chavez a livello continentale.

L’unica rivoluzione vincente laureata sul campo nel ‘900, si è detto a ragione, è stata quella femminista. Ma un certo uso della nonviolenza in senso metafisico e aconflittuale ha spesso ridotto a chiacchiera le potenzialità concrete di quella “rivoluzione”. E intanto, in molte parti del Sud del mondo, la condizione delle donne mostrava una realtà più complessa: un generale arretramento del potere, dei diritti, della libertà femminile in paesi del Centroamerica come il Nicaragua, ma anche una forte ripresa di protagonismo, entrambi invisibili alle lenti edulcorate dell’eurocentrismo. Dal Brasile, alla Bolivia, al Venezuela, dalle campagne ai barrios, indigene, contadine, lavoratrici riprendevano la testa di un gigantesco riscatto sociale. E, come dimostrano i capitoli di questo libro, anche “la tenace resistenza” delle donne nicaraguensi ha continuato un suo percorso nel tentativo di difendere i propri diritti, contro lo strapotere delle multinazionali, l’arroganza padronale o quella delle gerarchie ecclesiastiche: nelle associazioni femminili che portano avanti rivendicazioni di genere, nelle piantagioni di banane o di canna da zucchero, o nelle maquilas.

Una realtà di innovazione e arretratezze che si rivela anche attraverso i dati. In tutta l’America latina, e principalmente in Nicaragua – si legge nel capitolo dedicato al lavoro femminile – le donne hanno un ruolo molto importante nell’economia, ma si tratta purtroppo di un’economia sommersa, per lo più confinata entro gli angusti confini della sfera domestica e, soprattutto, non riconosciuta come rilevante dalla società. Le società latinoamericane sono ancora brutalmente maschiliste.

In tutto il continente, “il 75% delle donne si occupa delle attività domestiche senza alcuna retribuzione, mentre soltanto il 9% ha accesso alle attività agricole”. Il 32,8 per cento delle donne tra i 16 e i 49 anni è vittima di gravi violenze fisiche ad opera degli uomini di famiglia. E il 41 per cento delle donne che lavorano in casa o in ambiti famigliari senza retribuzione è vittima di violenze gravi, mentre la percentuale si riduce al 10 per cento se le donne lavorano fuori casa e percepiscono uno stipendio. Ed è evidente che a essere maggiormente colpite sono le più povere. Secondo Monica Zalaquett, che dirige il Centro de Prevencion de la Violencia (Ceprev), una delle cause dell’incremento della violenza di genere e del femminicidio è la crisi che sta vivendo il modello patriarcale e maschilista nella regione centroamericana. Anche qui, “i cambiamenti di genere negli ultimi anni hanno creato un forte scontro con la mentalità medievale esistente, portatrice di credenze, culture, stereotipi molto radicati”.

Perciò, il progetto realizzato dalle donne di Malpaisillo perché anche le contadine possano diventare proprietarie della terra che coltivano mediante l’accesso al microcredito, viene definito come “una rivoluzione copernicana”: un modo concreto di sfuggire alla sudditanza fisica e sociale dell’uomo. Un progetto che consente alle donne di entrare “nella sfera pubblica attraverso la porta principale e con documento di cittadinanza”. Una modalità già sperimentata negli altri paesi dell’Alba, l’alternativa bolivariana delle americhe dove i governi di Chavez o Morales destinano una parte della ricchezza ai beni e servizi.

“Hoy el amanecer dejó de ser una tentación, mañana algún día surgirá un nuevo sol que habrá de iluminar toda la tierra”, cantava l’inno nazionale sandinista, “Oggi l’alba non è più una tentazione, domani un nuovo sole illuminerà tutta la terra”.

Oggi l’Alba “bolivariana” del continente risuona per più modesti e realisti orizzonti, ed è già molto nello stato di barbarie del mondo. Ma, dal Venezuela al Nicaragua, quella del Socialismo del XXI secolo resterà una parola vuota finché, come mostra la battaglia sull’aborto, si negherà alle donne il potere di decidere sul proprio corpo. Il termometro che a ogni latitudine rivela sempre il grado di progresso di una determinata società è la condizione femminile.

 

*Geraldina Colotti, giornalista del quotidiano “Il Manifesto”, collabora come redattrice delle pagine culturali dell’edizione italiana de “Le Monde diplomatique”. Ha pubblicato, oltre a numerosi articoli, anche raccolte poetiche, libri per bambini e romanzi. Molti dei suoi racconti sono presenti in numerose antologie.

 

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