Campi di conoscenza & solidarietà

  • isla zapatera

  • Dal 2014, al campo di lavoro estivo con referente Associazione Italia-Nicaragua in loco, si è sostituita la disponibilità continuativa all’orientamento di chiunque (singoli o piccoli gruppi) voglia fare un’esperienza di conoscenza e/o  lavoro volontario in Nicaragua. Non siamo un tour operator, nè un’agenzia di viaggio. Abbiamo scelto un approccio diverso: piccoli numeri, contatto diretto con le realtà locali. A questo scopo, andranno concordate con i nostri riferimenti a El Bonete, Waslala e Zapatera la disponibilità e la modalità d’accoglienza.

    Puoi alloggiare qualche giorno a Managua presso la casa di riferimento dell’Associazione ed avere informazioni socio politiche sul Paese.

    (Nota Bene: se non c’è disponibilità nella casa si può valutare l’alloggio presso famiglie di fiducia dell’Associazione).

    Puoi conoscere il Nicaragua dal punto di vista sociale & politico.

    Puoi approfondire gli aspetti della realtà nicaraguense.

    Puoi conoscere & fermarti nelle comunità rurali dove sono attivi progetti di solidarietà. Fermarsi in una comunità per collaborare in attività lavorative.

    SI RICHIEDE:

    Età: maggiorenni;

    Passaporto: con validità superiore a sei mesi dalla data di ingresso in Nicaragua;

    Conoscenza minima dello spagnolo;

    Spese a carico del viaggiatore/volontario/a

    (Le spese previste, oltre il biglietto aereo, sono per vitto, alloggio & trasporto).

    CONTATTI:

    Coordinamento Nazionale: coordinamento@itanica.org;

    Circolo di Viterbo: itanicaviterbo@gmail.com;

    Circolo di Roma: itanicaroma@gmail.com;

    Bologna: tmoreschi@libero.it.

      ESTATE 2013

    SCOPO DEL VIAGGIO è una visione generale delle dinamiche di cambiamento sociale e politico in atto in Nicaragua e un’esperienza partecipata in una realtà agricola di tipo comunitario. La nuova esperienza di governo sandinista, incentrato su programmi di partecipazione sociale e lotta alla povertà, consente poi di avvicinarsi al processo continentale di alternativa bolivariana (ALBA), risposta latino americana allo strapotere neoliberista che sta presentando il conto a stati e popolazioni della nostra Europa.

     PROGRAMMA  Partenza: 3 agosto (ritrovo a Managua)

    • MANAGUA: accoglienza del nostro rappresentante in loco, conoscenza della rete di      contatti dell’Associazione, incontri con realtà sociali, politiche, sindacali, radio-giornalistiche.     
    • WASLALA (municipio della regione autonoma Atlantico Norte):conoscenza e condivisione delle attività della comunità rurale e dell’Istituto Agropecuario intitolato a Ubaldo Gervasoni, prete contadino esponente della Teologia della Liberazione).
    • EL BONETE (zona nord-occidentale): conoscenza della comunità e dei progetti sostenuti da La Comune di Carugate.

COSTI

Ogni partecipante dovrà provvedere alla prenotazione e acquisto biglietto aereo. Oltre al costo del biglietto sono previste le seguenti spese: 100 euro per iscrizione e kit materiale informativo & 350 dollari per la copertura delle spese di vitto, alloggio (in strutture collettive) e trasporto per la durata del programma (due settimane)..

ISCRIZIONI

Si chiuderanno a fine giugno o al raggiungimento di 10 partecipanti. È ammessa l’iscrizione previo ricevuta via fax della prenotazione volo.
È previsto un incontro preliminare (obbligatorio) dei partecipanti a Milano, 1 mese prima della partenza in Via Varchi 3 (zona Bovisa)

Per iscrizioni ed informazioni:

Associazione italia-Nicaragua, Via Petrella n° 18 – 01017 TUSCANIA (VT)
Telefono 0761.43.59.30 www.itanica.orgcoordinamento@itanica.orgitanicaviterbo@gmail.com

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“Un’esperienza di pre-morte in un campo di lavoro in Nicaragua”

di Claudio Morici, agosto 2007.

 

Dicono che quando stai per morire ti passa tutta la vita davanti. In Nicaragua io stavo davvero per morire, semplicemente me la sono fatta sotto.Sulla barca per tornare sull’isola, dopo una mattinata a Granada. È forse per questo che mi è passata davanti non la mia vita, ma la vita degli altri, in particolare quella dei miei compagni di brigata.

È andata che stavo su questa barca, il clima sembrava ottimo, mi abbracciavo una papera enorme comprata per la pinata, stavo chiacchierando con Enrique, tutto sembrava andare per il verso giusto. E a un certo punto Enrique comincia a parlarmi della guerra. Lui è stato militare per 10 anni, ottimo tiratore pare. Da bravo scolaretto, prendo degli appunti e comincio a fargli un po’ di domande. La sua storia allucinante, come se ne sentono molte dagli abitanti di Sonzapote. Enrique è entrato nell’esercito a 15 anni per vendicare la sua famiglia da uno zio. Questo zio aveva praticamente rubato dei soldi al padre, mandandolo in rovina, fregandogli anche un asino. Ed Enrique si arruola con i sandinisti perché è l’unico modo per fare giustizia. E si gira per un anno e mezzo tutti i villaggetti con l’esercito e ogni volta che occupano il villaggetto lui chiede se conoscono lo zio, se è passato di lì, ecc. Passa un anno e mezzo. Un anno e mezzo in cui spara, mangia poco e male, scala montagne pieni di fango, uccide e vede uccidere. Fino a quando il suo gruppo non fa prigioniero un soldato della contra. Lo beccano nello scantinato di una casa, dove si era nascosto da una settimana, ricattando la famiglia, violando dal figlia del proprietario, facendo altre bastardate. Lo prendono e vanno a dire a Enrique che forse è suo zio.

E a questo punto il lago comincia a muoversi. C’è molto vento e subito dopo parte una pioggerellina. Mi guardo Enrique e gli dico qualcosa tipo “C’è una pioggerellina, è piacevole”. Lui mi fa una faccia come a dire “aspetta tra un po’ e vedrai, ah ah ah”. Enrique continua il suo racconto: sì, il prigioniero della contra era suo zio. Parte la scena in cui i soldati sono in circolo, in mezzo Enrique con lo zio, che si regge appena in piedi per le botte, parlano, tutti lì ascoltano e sono pronti a fare qualsiasi cosa, dipende da questo dialogo, da quello che dirà di fare alla fine il loro compagno Enrique. I due si guardano negli occhi, sembra un film di Sergio leone, solo che è vero. Enrique ha un rancore che se lo porta via, ma cerca di mantenere la calma, non ha fretta, non può averla dopo un anno e mezzo così. Gli fa le prime domande, gli chiede perché ha fatto quello che ha fatto. Lui risponde che non sa di cosa sta parlando. Casca dalle nuvole, dice che non sapeva di aver rovinato la sua famiglia. Fa vedere che ci pensa… ora ha capito! La colpa non è sua è della persona che lavorava con lui. Loro sono parenti non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Dice che la contra lo ha rapito, lo volevano ammazzare, per questo è dovuto andare con loro. Ma davvero non sapeva nulla di questa storia dell’asino e dei soldi. Sono parenti, lo ha visto crescere, lo ha preso in braccio quando era piccolo. Ma Enrique non gli crede, troppe cose non coincidono, non gli crede ma vuole fargli altre domande: c’è l’evidenza, una famiglia rovinata, deve ammettere l’evidenza. E allora insite, gli fa delle domande a trabocchetto, lo incastra, e lo zio è costretto ad ammettere: sono stato io, è vero, ho sbagliato scusa. Gli chiede perdono, si mette in ginocchio davanti a tutti, gli dice che farà qualsiasi cosa ma ora lui non lo può ammazzare. Sono parenti, lo ha tenuto in braccio quando era piccolo.

È più o meno a questo punto del racconto che comincia la tempesta. La pioggia è fortissima, mettiamo i teloni per coprire i bagagli, mi tengo stretto alla papera della pinata, quasi sperando che possa nuotare meglio di me, in quanto papera. La barca si inclina, si inclina sempre di più. Ma ancora non me la faccio sotto e chiedo a Enrique come poi è andata a finire. Lui mi risponde che, poiché erano parenti, non lo uccise. Lo fece fare ai suoi compagni. Lo bendarono, lo portarono in montagna e bang. Io commento con un “ah”, che non so esattamente che vuol dire. E il lago si infuria, comincia a fare a botte con la pioggia, mentre noi ci troviamo in mezzo alla rissa, e siamo quelli che non hanno fatto niente ma passavano di lì e si prendono un sacco di schiaffi. E la barca si inclina terribilmente, imbarca acqua, arriva al limite e non si vede né dove stiamo andando né da dove siamo venuti. E qui cominci a farmela sotto. All’improvviso penso che non toccherò più terra. Mi faccio un po’ di calcoli su tutto quello che è successo nella mia vita, penso anche a questa cosa del campo in Nicaragua, e alla fine di questi calcoli ho la certezza, la certezza matematica che la barca si rovescerà e moriremo tutti. O almeno morirò io. Questo risulta dai miei calcoli (per motivi personali che non starò qui a dire e nemmeno ricordo molto bene). E subito dopo questa presa di coscienza, mi vengono in mente tutti i compagni della mia brigata, Uno dopo l’altro, tutti. Me li vedo così come pochi giorni prima, a Managua, una signora davvero straordinaria, aveva esposto alla brigata le storie di tanti caneros colpiti dall’IRC. Aveva questo mazzetto di foto, ce le mostrava una dopo l’altra e per ognuna raccontava una breve storia. Ma tutto partiva da un’immagine, in questo caso davvero drammatica. Foto e racconto, e mentre parlava, ci fissava negli occhi.

E ricordo che il primo companero di cui visualizzo l’immagine è Silvia. Perché ce l’ho davanti, sulla barca, e ci vuole poco a visualizzarla, Solo che lei in mezzo a questo cavolo di fine mondo ride. Ahhh ahhh ahhh. Io sono sicuro di morire e sento il rumore della pioggia, delle onde, dei miei denti che battono. E Silvia ahhh ahhh ahhh, se la ride sotto la cerata azzurra. Quando ci hanno presentato Silvia, a Managua, come un altro membro della brigata che si aggiungeva alla fine, insieme a suo cugino Marco, ho pensato che sarebbe durata pochi giorni. La prima cosa che mi ha detto, parlando dell’isola, è stata “sai giocare a canasta?”. Quattro giorni ho pensato. Forse quattro e mezzo. Poi parlandoci meglio, mi aveva detto “Guarda, basta che non mi mettono in una famiglia con il padre ubriaco, solo questo”. E manco a farlo apposta, dopo due giorni sull’isola, c’era il padre di famiglia di Silvia, con due occhi rossi, delirante, sudato, che l’aspettava lungo il sentiero perché non si perdesse. Mmmm… Due giorni, ho pensato, forse due e mezzo. E invece Silvia non solo è sopravvissuta alla grande, sempre calma, mai una lamentela, masi è messa a curare gli altri. Anche grazie alla sua enorme dotazione farmaceutica, ha evitato l’amputazione della mano di Flavio, attenuato i possenti calli di Alberto, massaggiato la schiena incriccata di Giacomo e vai così. A me ha curato un eritema solare fastidiosissimo. Mi ha spalmato una crema al cortisone davvero sospetta, visti i risultati. Non solo non ho più sentito il minimo fastidio, ma mi è passato anche il raffreddore, il mal di schiena, la tosse. E in più sentivo un grande senso di pace e serenità, forza fisica e euforia. Il giorno dopo ne volevo ancora. Ora, a distanza di due mesi, posso dire che ne sono uscito. Ma è stata davvero dura.

 Il lago continuava a manifestare i suoi istinti omicidi. Io davvero ero terrorizzato e pensavo che all’andata Angela era l’unica che aveva considerato un rischio il trasposto. “Una mia paura che devo superare”, diceva e noi quasi la prendevamo in giro. Ma io in quel momento, tra un cavallone e l’altro, capivo che l’Angela aveva ragione. In effetti, è una persona giudiziosa, aperta, intelligente, creativa, difficile che non abbia ragione, io le do sempre retta, tutti le danno retta. E allora perché allora nessuno le aveva creduto? Perché?????

E mi viene in mente l’immagine di Alberto. Ora non inizierò facendo battute sulla sua altezza, perché tutti se lo aspettano. Non dirò ad esempio che quelli dell’isola lo chiamavano “El mostro” e non dirò che quando stava chiuso a dormire in tenda si vedeva il bozzo dei pieni. Di Alberto, mentre stavo morendo come un coglione in mezzo al lago, ho pensato davvero per la sua storia personale, si è trovato nel posto giusto al momento giusto. Ed è stata una fortuna e un onore per me assistere a questa cosa, che è sempre un’esperienza che ti fa pensare anche a te stesso, a come vanno le cose generale, a quali sono le “regole del cambiamento”. E me ne sono accorto, che stava nel posto giusto al momento giusto, proprio uno dei primissimi giorni, quando eravamo soli, davanti la catapecchia dove dormivo, tutto buio intorno, con una candela che in quel momento valeva più di un piatto di carbonara. Ombre di insetti qua e là, gran caldo, il suono dell’acqua non lontana. Guardiamo l’orologio e sono tipo le otto e quaranta. Sonno zero. Il Ron non possiamo tirarlo fuori perché di fronte ai locali pare brutto. E allora lui mi guarda, davvero perso, e mi fa “A Cla, ma dove cazzo stamo?”.

E intanto sulla barca mi guardo la maglietta. È macchiata di vari colori, blu, giallo, rosso. Mi chiedo come sia possibile. Da quando in qua le onde macchiano? È subito dopo penso che forse il paradiso è davvero tutto più colorato. Poi vedo il paperone della pinata, tutto fradicio. È lui che perde inchiostro. E allora penso ad Alice, con la testa dentro il suo diario, che finisce l’inchiostro della penna. Perché Alice scriveva il diario tutti i giorni. Quando me ne sono accorto ho fatto di tutto per entrare nel suo diario. Aspettavo che ci fosse lei per dire cose importanti, originali, facili da trascrivere. Poi, poco dopo, mentre la vedevo tutta presa, cercavo “spizzare” per vedere se c’era il mio nome. Ma dalla calligrafia non si capiva niente. È che secondo me Alice è venuta sull’isola per motivi segreti. Qualche cosa di importante che farà tra qualche anno e di cui non ha parlato a nessuno. Di certo la sua motivazione era diversa da quella di tutti gli altri. Mi è sembrata in qualche modo più “professionale”, come se fosse l’inizio di qualcosa davvero inerente a quello che abbiamo fatto, e non di “trasversale” come per tutti noi. E a un certo punto gielo dicevo direttamente: “Questa ricordati di scriverla sul diario”. Lei mi rispondeva di sì ma non so se poi l’abbia fatto davvero.

Con la bocca impastata di acqua di lago, chiedo tutto titubante e terribilmente spaventato dalla risposta, chiedo a Enrique se è normale. Lui mi risponde cosa?”. Io gli dico il lago così, la barca così: è normale? E lui “Abbastanza ahhh ahhh ahhh”. Proprio così, con lo sguardo da militare quattordicenne, il fucile più grande di lui, dopo una notte a camminare in montagna, al buio, al freddo, senza mangiare. “Abbastanza ahhh ahhh ahhh”. E penso allora che aveva ragione Marco. E sì, aveva proprio ragione Marco.

Perché mentre mi guardo nella mia mente l’immagine di Marco, proprio come la signora che raccontava mostrando le foto, ecc., mi ricordo che la prima volta che l’ho visto ho pensato: questo dura cinque giorni. Uno in più della cugina. E forse lo avevano pensato anche gli altri, e forse lo avevamo pensato tutti in quanto più o meno informati del piano familiare di “svegliare la sua coscienza politica” e (suppongo soltanto), diminuire le sue ore di videogiochi, chat, ragazzette al parco, tabacco e affini. Conoscendolo, penso che marco ha ragione. Non sono bene su che cosa, ma ha ragione lui. Sull’isola ha organizzato una cena spettacolare con tre famiglie e una decina di bambini, io pensavo che non ci sarebbe riuscito e mi sbagliavo, aveva ragione lui. Ma soprattutto, è lui che mi ha fornito l’intuizione più lucida, descrittiva e folgorante di quello che succedeva a Sonzapote. Dopo questo suo contributo, io ho visto tutto in modo diverso. Ho capito perché, ad Esempio, Enrique ride mentre in mezzo alla bufera mi fa “È abbastanza normale”. Marco una volta mi ha detto: “Se scrivi un libro sull’isola devi intitolarlo L’isola dei pazzi”. E alora ho pensato che le persone che avevo conosciuto in quel posto, non erano solo nicaraguensi, cavolo. Non erano solo persone che vivono su un’isola, con problemi di casa, cibo, lavoro e terra. La maggior parte di loro sono ex militari, famigli che hanno subito violenze di tutti i generi, sequestri, ricatti, minacce, pestaggi. È evidente, ma non c’avevano mai pensato proprio in questi termini. Tutto quello che succede sull’isola, le dinamiche tra le persone, i comportamenti, non può non essere influenzato da questo. La comunità di Sanzopote è un po’ una specie di comunità terapeutica, te ne accorgi anche dai loro figli di 5-6 anni.

E il viaggio in barca va per le lunghe, è una morte lenta e dolorosa. Mi dico: è normale quello che sta succedendo? E allora come mai nessuno mi ha avvertito? Io volevo solo andare a Granada per una mattinata, a fare delle cose. Non volevo cagarmi sotto per due ore. Se può andare così sono cose che vanno dette. Forse mi hanno fregato? E allora visualizzo subito la foto di Giacomo. A Giacomo, in un paio di mesi, sono successe le seguenti cose: scippato sulla metro di Città del Messico, appena arrivato; derubato del cellulare in albergo, non mi ricordo dove; fermato per strada da un salvadoregno e costretto a pagere il pizzo; derubato del portafoglio durante la festa sandinista dove era andato pieno di slancio politico e umanitario; truffato da uno spacciatore a Granada che gli ha detto “torno subito”; quasi ricattato dalla famiglia che lo ospitava sull’isola, che se non gli offriva un’altra birra non era un buon amico, non era come “quelli dell’anno scorso”; quasi derubato in ospedale, sempre a Granata, dove rea andato a curarsi da una puntura che gli aveva gonfiato la faccia. Ha sentito la manina leggera del vicino sul portafoglio, mentre lui cercava di tirare su il morale agli altri pazienti nicaraguensi che aspettavano in fila!!!!! Cazzo!!!!!

Il dato statistico parla chiaro,non può essere una casualità. Giacomo entra subito a contatto con le persone che non conosce. Per conoscerle, appunto. Lo fa più di tutti, ha questo talento (oltre quello di riuscire a rimorchiare). E tuttavia, se hai questo talento, pare ci siano delle controindicazioni, è così, anche se è difficile da mandare giù. Ma è una cosa davvero bella, e spero che le controindicazioni gli facciano il solletico.

E dopo Giacomo penso a Flavio, per chiudere questo album di foto prima di consegnarmi alla morte (manca Adriano, il mitico capogruppo, ma lo sto utilizzando per il mio prossimo romanzo e non me lo voglio bruciare). Flavio quando l’ho visto per la prima volta aveva: un occhio nero, uno scatolone di penne e quaderni, il tatuaggio del Che sul braccio e un par de panini cò la bresaura. E lui è proprio così come l’ho visto la prima volta. Certo, poiché di certo lo frequenterò ancora, sono certo di scoprire aspetti segreti del suo carattere, doppie personalità, magari picchia pure le donne, ecc… Ma credo che Flavio, per lo più, stava tutto lì, come si è presentato alla mia vista da subito. L’occhio nero, il tatuaggio del Che, i quaderni, la bresaura.

Alla fine la barca è arrivata.