TEMPI PRESENTI – GENNAIO 2024

In quest’epoca presente, in cui a prevalere sono morte, violenza e soprattutto rifiuto del bene verso l’umano, e il non umano con cui condividiamo un mondo, ogni giorno ci giungono immagini di guerra, ma nella ripetizione quotidiana e continua, le atrocità finiscono con non suscitare raccapriccio, orrore, sdegno. Si confondono con la pubblicità che ad ogni ora viene erogata a dare sicurezza. Siamo al riparo, almeno noi, non vale la pena pensare alla guerra, a quell’inviluppo inestricabile di morte e di inumanità. Il 2023 sì è chiuso con l’invasione israeliana di Gaza che ha fatto 21.672 morti e 56.165 feriti, (mentre andiamo in stampa le persone uccise sono 24.285), oltre ai circa 1.400 israeliani, tra civili e militari, rimasti uccisi il 7 ottobre nell’attacco di Hamas e nei mesi successivi. Il 2024 potrebbe portare all’escalation della guerra in Medio oriente, mentre non c’è traccia di un cessate il fuoco permanente a Gaza per impedire che lo sterminio prosegua, 250 palestinesi uccisi in media ogni giorno, nonostante la sentenza della Corte internazionale di giustizia (ICJ) che ordina a Israele di prevenire qualsiasi atto genocida, di impedire ai suoi militari di commettere tali atti e di garantire l’ingresso di cibo, acqua, medicine e altri bisogni umanitari nella Striscia di Gaza occupata e assediata. In copertina, non a caso, abbiamo proposto “Handala”, creato nel 1969 dal disegnatore Naji al-Ali (1937-1987), personaggio emblematico dell’identità palestinese. Vestito di stracci, sempre di spalle e con le mani incrociate, è il simbolo della tenacia di un popolo in attesa di uno Stato. Quando vedrà la luce, Handala mostrerà il proprio volto. 

Il 13 ottobre l’esercito israeliano ha ordinato ai palestinesi nel nord di Gaza di lasciare le proprie case. Migliaia di persone hanno seguito l’avvertimento e si sono dirette a sud, solo per essere bombardate lungo il percorso e l’arrivo. A novembre, dopo aver lanciato l’offensiva di terra, l’esercito israeliano, ha designato la via nord-sud di Gaza, Salah al-Din Street, come “corridoio sicuro”, che è diventata un corridoio dell’orrore dove i palestinesi sono stati bombardati a caso, giustiziati, fatti sparire con la forza, torturati e umiliati. Infine la creazione delle nuove “zone sicure” per i palestinesi, immediatamente prese di mira dall’esercito israeliano. Questo dimostra il chiaro intento di liquidare i civili palestinesi dopo averli sfollati (copyright Nicola Perugini, Docente di relazioni internazionali all’università di Edimburgo); mentre scriviamo sono 117 i giornalisti e report uccisi, più di uno al giorno.  “Se dovessi morire, / tu devi vivere / per raccontare / la mia storia / per vendere le mie cose / per comprare un po’ di carta / e qualche filo, / per farne un aquilone / (fallo bianco con una lunga coda) / cosicché un bambino, / da qualche parte a Gaza, / guardando il cielo / negli occhi / in attesa di suo padre che / se ne andò in una fiamma / senza dare l’addio a nessuno / nemmeno alla sua stessa carne / nemmeno a se stesso / veda l’aquilone, il mio / aquilone che tu hai fatto, / volare là sopra / e pensi per un momento / che un angelo sia lì / a riportare amore. / Se dovessi morire, / fa che porti speranza / fa che sia un racconto!” (Ultima poesia di Refaat Alrareer, intellettuale e poeta palestinese, è stato ucciso da un bombardamento mirato israeliano il 6 dicembre 2023 nella Striscia di Gaza). Come sempre la guerra produce macerie anche tra noi: va in macerie la percezione esatta del presente, il giudizio su di esso, elementare, radicalmente umano. Va in macerie il senso stesso della razionalità politica elementare, quella secondo cui politico è organizzare la convivenza e la solidarietà delle comunità umane. La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Perché c’è stato un momento particolare dal quale Israele cessò di considerare la Shoah come espressione di un vergognoso passato e iniziò a rivendicare esplicitamente la memoria come fonte legittimante della propria politica.  

Nel momento in cui la memoria della Shoah richiede, a causa dell’estinguersi dei testimoni, il lavoro della sua codificazione, del suo consolidamento in cultura, il suo uso come mito fondatore, di tipo etnico, dello stato di Israele la trasforma in strumento buono per tutti gli usi, e la depaupera del suo messaggio di allarme permanente circa il tarlo di barbarie contenuto nella civiltà occidentale avanzata. L’Europa, in particolare, fa una penitenza banale e gratuita sulla pelle di altri e si autoassolve per sempre: soprattutto si autoassolve la destra più o meno ex fascista. Così, molti, fanno tanta fatica a distinguere fra politica israeliana, stato d’Israele, e ebraismo. Noi non vogliamo dire che gli israeliani sono nazisti. No, non lo diremmo mai, non dobbiamo dirlo mai. E per tante ragioni. Per esempio non vogliamo dire che i militanti di Hamas sono partigiani. E tantomeno vogliamo che si pensi ai partigiani romani del ’44 come a una banda di terroristi. Una grande donna, Edith Bruck, ha scritto (dal libro “Privato”, 2010, Garzanti)  : “E non dirmi che gli ebrei sono migliori. Nonostante Auschwitz sono uguali agli altri. Sono esseri umani. Niente di più. Se dici che sono migliori, è come negare che siano esseri umani, né meglio né peggio degli altri, anche se sono diversi agli occhi degli altri. E sono giudicati diversamente quando uccidono, sganciano bombe al fosforo, colgono il nemico alle spalle, lo precedono nell’azione, fanno la guerriglia, sequestrano le persone, torturano i prigionieri, come tutti, nel nome della patria, per ragion di stato (…) Chi difende Israele in tutte le sue guerre è un buon ebreo; chi lo critica tradisce madre, padre, patria, storia, sé stesso. È un reietto di sinistra. Essere ebrei è difficile anche tra ebrei. Se non ci credi và un po in Israele, mamma! A volte mi chiedo se la patria promessa valesse il prezzo pagato. Se perdere la faccia dell’innocenza non ci abbia tolto la nostra identità vera, se non ci ha divisi in israeliani ed ebrei, tanto per la gente non fa differenza”. Davanti alla nostra impotenza, dove la solidarietà fatica a farsi strada, a diventare un’azione e non un’entità astratta, a diventare realtà che permette la dolcezza del cercare insieme la pace, la giustizia, il rischio della rassegnazione, della rinuncia è dirompente: “… Ma tu non credere a chi dipinge l’umano / come una bestia zoppa e questo mondo / come una palla alla fine. / Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e  di sangue. / Lo fa perché è facile farlo. / Noi siamo solo confusi, credi. / Ma sentiamo. Sentiamo ancora. / Sentiamo ancora. / Siamo ancora capaci di amare qualcosa. / Ancora proviamo pietà. / Tocca a te, ora, a te tocca la lavatura di queste croste / delle cortecce vive. / C’è splendore in ogni cosa. Io l’ho visto. / Io ora lo vedo di più./ C’è splendore. Non avere paura” (estratto dalla poesia “Bambina mia” di Mariangela Gualtieri).

Infine ringraziamo di cuore tutte le persone che si sono già tesserate, o hanno rinnovato il tesseramento, in particolare tutte quelle che generosamente stanno sostenendo la nostra campagna a favore dell’Ospedale La Mascota di Managua. Che serva a guarire due, cinque, dieci piccoli pazienti del reparto di oncologia pediatrica, è comunque una goccia di bene in questo mare nero. Perché è proprio vero quello che si legge nel “Talmud”: “Il mondo non si mantiene che per il fiato dei bambini. Il respiro dei bambini è un soffio delicato, ma indispensabile per tutta l’umanità, essendo la promessa sulla quale ciascuno di noi fonda le speranze in un futuro migliore”.