CHI HA VINTO E CHI HA PERSO IN NICARAGUA?

Nei giorni scorsi il Nicaragua è stato incandescente. Arrivavano notizie allarmanti e un paese che adesso, in genere, non occupa le prime pagine – come accadeva qualche decennio fa, durante la Rivoluzione Sandinista -, è balzato di nuovo sotto gli occhi del mondo. Dal Papa al Segretario Generale delle Nazioni Unite, da diverse posizioni di sinistra come dalle più arretrate dichiarazioni della destra, tutti hanno avuto qualcosa da dire sul paese di Sandino. E ce ne era da dire! Si è trattato di una generalizzazione della violenza con un saldo di circa 30 morti. (…) Il governo ha annunciato a sorpresa, con una misura unilaterale non negoziata con nessun settore, un importante aumento della Seguiridad Social del 3.5% per i datori di lavoro (aumentando il contributo dal 19% al22,5%) e dello 0,75% per i salariati (aumentando dal 6,25% al 7%), abbassando del 5% le pensioni dei pensionati (che, secondo il governo, “erano quelli che meno contribuivano” e che, in cambio dell’aumento avrebbero ricevuto una miglior copertura in salute e in altri benefici), mentre le pensioni future sarebbero diminuite di circa un 12%. Una misura esplosiva alla quale hanno reagito sia gli impresari che i lavoratori in maniera furiosa. Proprio qui sta la complicazione rispetto ad una analisi e ad una collocazione politica.1

Secondo alcuni punti di vista, la reazione violenta, con il popolo arrabbiato in piazza, le barricate e la furibonda protesta popolare è stata tutta una montatura, una manipolazione. Non c’è dubbio che si sia trattato di una misura sfortunata visto che lo stesso governo, dopo i violenti avvenimenti che ha provocato, l’ha ritirata e si è appellato al dialogo “per mantenere a pace”. Secondo l’orteguismo e alcuni settori che analizzano la situazione, anche fuori dal Nicaragua, – lettura che ha la sua parte di ragione – l’esplosione di furia popolare è frutto di un’agenda preparata. Viene paragonata alle guarimbas venezuelane del 2017 che hanno asciato un saldo di più di 100 persone morte. E’ significativo (proprio come è successo in Venezuela) che nello stesso momento è esplosa, in maniera coordinata, una protesta generalizzata in tutte le città del paese, finita poi in saccheggi e vandalismi, sempre guidati da giovani. Si potrebbe pensare ad una “mano occulta”, visto che l’opposizione politica dei partiti di destra non ha questo potere di convocazione né un potere logistico-organizzativo. Secondo le denunce di ambienti ufficiali dell’orteguismo, molti di quegli “studenti” non lo erano (come in Venezuela), ma provocatori, agitatori contrattati. La destra oligarchica – erede storica del somozismo – potrebbe approfittare della congiuntura per prendere le distanze e disfarsi di un governo che gli sembra troppo “populista”. Mentre Washington si starebbe fregando le mani per la contentezza. Le “rivoluzioni colorate”, o “colpi di stato blandi” (in questo caso non tanto blandi, con 30 morti), propiziate presuntamente da una popolazione civile che “esercita i suoi diritti di cittadinanza”, da giovani studenti che reclamano (ma con agende occulte delle fucine ideologico-mediatiche dell’impero), sembrano funzionare a tutto vapore. Avere un nuovo “canale di Panama” nel cortile di casa per di più con una futura presenza militare cinese, è una sfida insopportabile per la geopolitica emisferica degli Stati Uniti.2

La finalità sarebbe “eliminare finalmente questi fastidiosi Venezuela, Bolivia, Nicaragua e, naturalmente, Cuba”. Secondo questa perfida agenda, queste presunte “rivolte cittadine spontanee” sarebbero la strada da percorrere. Insistere sulla corruzione come la nuova piaga biblica da combattere è un vero e proprio “cavallo di battaglia”. Comunque, secondo un comunicato del Frente Sandinista, “Vale la pena sottolineare che le università più belligeranti sono state: la Università Centroamericana (UCA) dei gesuiti, e l’Università Politecnica (UPOLI), proprietà di una chiesa protestante con sede negli Stati Uniti”. Ma si potrebbe proporre anche un’altra lettura dell’accaduto: l’orteguismo come espressione estrema di un bonapartismo sfrenato, nepotista e corrotto, è messo in questione. Il popolo in piazza sarebbe la dimostrazione di uno scontento generalizzato dopo molti anni di presidenzialismo e corruzione. La repressione violenta condotta da polizia ed esercito è un insulto ai valori rivoluzionari che un tempo sbandierava il Frente Sandinista. Ecco perché, per esempio, un sandinista storico come Jaime Wheelock ha scritto al presidente Ortega, in una lettera pubblica, che “Il decreto che ha riformato l’Istituto Nicaraguense di Sicurezza Sociale (INSS) sia per il contenuto che per la forma è stato un grave errore politico, tecnico e legale del governo che ha colpito i diritti economici acquisiti e i risparmi di milioni di capi famiglia senza dare una soluzione pratica alla grave situazione finanziaria dell’INSS”, chiedendo così l’immediata deroga del decreto in questione.3

Come mai il presidente Ortega aveva proposto questa misura? Secondo un comunicato del Frente Sandinista di questi giorni che spiega le ragioni dell’agire: “La quantità di benefici degli assicurati e la copertura di questi benefici alla popolazione sono aumentati esponenzialmente con il ritorno del sandinismo al potere nel 2007, il che ha prodotto una situazione economica critica nell’INSS che è l’istituzione statale che si occupa di questo argomento. Rispetto a questo, il FMI e le imprese private organizzate nel Consiglio Superiore dell’Impresa Privata (COSEP), hanno chiesto di applicare le tipiche misure neoliberali su questo tema: aumentare l’età della pensione (in Nicaragua è 60 anni) e la quantità di settimane necessarie per accedervi (750 per le pensioni normali e 250 per chi all’età della pensione non ha raggiunto la prima quantità, cosa che non esisteva prima del ritorno al potere del sandinismo nel 2007; perfino in questo caso, la proposta dei più radicali neoliberali era eliminare del tutto la pensione). Il nostro governo ha risposto con un deciso rifiuto tanto al FMI che al COSEP. La decisione, invece, è stata quella di aumentare il contributo dei lavoratori e degli imprenditori e stabilire un contributo per i pensionati, compresi quelli che ricevono una pensione ridotta”. Il progressismo, in Nicaragua e in altre latitudini, ha criticato severamente l’aumento dei contributi e anche la repressione scatenata contro il popolo che protestava. Naturalmente deve essere condannata la violenza contro il popolo lavoratore: 30 morti rappresentano una catastrofe assolutamente intollerabile.4

Ma, analizzati obbiettivamente tutti gli avvenimenti, restano comunque alcune cose chiare. E’ evidente che il Frente Sandinista, guidato a discrezione da Daniel Ortega e Rosario Murillo, non è più in grado di far sventolare le bandiere rivoluzionarie di un tempo. Citando il panamense Olmedo Beluche: “E’ qui che si evidenzia la vera faccia del così detto progressismo latinoamericano. Governi che si danno arie di rivoluzionari e chiacchierano di socialismo ma che nei fatti non vanno oltre i limiti del sistema capitalista. La crisi del progressismo in tutto il continente è la crisi del riformismo borghese, incapace di vere misure socialiste in un momento di crisi sistemica e di caduta dei prezzi delle materie prime”. Eppure, nello stesso tempo, si assiste al processo di mostruosa avanzata della destra e retrocesso dei progressi popolari che sta sperimentando il continente o il mondo; un governo tiepidamente riformista, che lavora gomito a gomito con l’impresa privata e non litiga con l’oligarchia conservatrice, come l’attuale orteguismo, per la logica imperialista e vorace degli Stati Uniti continua ad essere “una pietra nella scarpa”. Parlare di giustizia sociale (che non è la stessa cosa di rivoluzione socialista), far parte di un’alleanza in cui non c’è Washington come l’ALBA, e aprire le porte alla Cina è quasi un “pericolo comunista” nel mondo neoliberale e ultraconservatore in cui viviamo. Chi ha vinto e chi ha perso in Nicaragua? Il popolo di sicuro non ha ottenuto niente.

(Fonte: www.nostramerica.wordpress.com del 4 maggio 2018).

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