TEMPI PRESENTI (gennaio 2023)

Il movimento iraniano “Donne, vita e libertà” è forse l’unico evento del presente che ci fa sperare nel futuro e in un anno migliore del precedente. Questo inizio anno sembra caratterizzato da un profondo e forte sentimento di impotenza, se non proprio un’assuefazione all’orrore, quel non sapere dove incominciare, che deriva dal sentirsi spaesati e sopraffatti dalla marcia trionfale della dominazione violenta nel mondo e dal moltiplicarsi delle derive autoritarie. Dominano guerre, disuguaglianze, sfruttamento, sopraffazione; senza alternative apparenti. Come è stato scritto: “La guerra è come un treno: quando parte non riesci a fermarlo e non riesci a scendere”; basta osservare come la guerra di aggressione russa all’Ucraina continua lungo un percorso indefinito, caratterizzato da uno stillicidio di orrore e di morte, senza apprezzabili prospettive di pace. Più continua la guerra, più crescono le possibilità di un esito realmente disastroso. L’atomicasarà tattica o strategica? Contro un bersaglio ucraino o atlantico? Come replicare, se si potrà? Domande che fino a ieri rimbalzavano fra Stranamore sono lessico familiare. Qualcuno avrà anche imparato a non preoccuparsi e ad amare la Bomba, come da celeberrimo film di Stanley Kubrick. Il rischio, oltre quello nucleare, è quello di “afghanizzazione” del conflitto, cioè della sua trasformazione in un pantano da cui i due schieramenti non riusciranno a tirarsi fuori. Chi combatte convintamente una guerra non può concepire la pace se non come frutto della propria vittoria. La guerra non ripristina i diritti, bensì ridefinisce i poteri. Come giustamente è stato osservato, l’Ucraina non uscirà da questa guerra, se mai ne uscirà, più democratica e “denazificata”, ma più autoritaria e militarizzata. E la Russia, anche se dovesse registrare la caduta di Putin, non consegnerà certo il potere a un’èlite più conciliante. Senza dimenticare che ogni guerra è anche una guerra al Pianeta. È in grado di contaminare atmosfera, fiumi, falde acquifere, mari ben oltre i confini degli Stati in guerra, fino ad influenzare il clima globale. Quando finisce la guerra tra eserciti, continua quella contro l’ambiente. In tutto questo, la deriva dell’Europa sembra palpabile, incapace di un’azione politica autonoma per la pace, lasciando la ribalta di mediatore all’autocrate turco Erdogan, e con una recessione alle porte  che potrebbe compromettere seriamente la coesione tra gli stati membri.

La pace, il minimo comun denominatore dei diversi modi degli essere umani di intendere il proprio bene e di ricercare la propria felicità, è debole di fronte ai meccanismi delle forze in atto scatenate dalla guerra. Ma proprio perché la pace è così fragile non possiamo permetterci di farne a meno. Se è una cosa giusta non può essere una guerra. Il fine non giustifica i mezzi e i mezzi sbagliati danneggiano il fine. È stata varie volte citata Virginia Woolf: “Finché non pensiamo la pace tanto intensamente da materializzarla, ci ritroveremo tutti (…) in un’unica tenebra”.  Misurarsi, quindi, su proposte di pace e di convivenza vuol dire anche interpretare al meglio le preoccupazioni, lo smarrimento, le paure dei cittadini europei e impedire che se ne appropri la destra. Alla fine potrebbero essere le destre, maestre del populismo, a riprendere lo scettro del governo della paura. Qualcosa di molto simile è già avvenuto in Italia. Si parla di fascismo a livello globale, ma l’Italia non è solo un Paese che ha conosciuto il fascismo. È il Paese in cui il fascismo è nato. In cui il comunismo non ha prodotto i gulag, ma la resistenza. Ora abbiamo un governo con un partito maggioritario che ha rivendicato con orgoglio la propria origine. Si insedia dopo anni di campagne di stigmatizzazione e criminalizzazione del comunismo, contro una parte del mondo politico che, anziché ribattere, diceva “siamo d’accordo con voi, anzi, i ragazzi di Salò sono bravi ragazzi!”. Non c’è da stupirsi: gli eredi del fascismo sono arrivati al governo traendo profitto da una svolta culturale profonda. Così, le intenzioni del governo di destra estrema-destra al potere sono note: l’accoppiata presidenzialismo e autonomia differenziata. Eleggere direttamente il Presidente della Repubblica (obiettivo perseguito sin dal tempo del MSI) e autonomia differenziata trasferire vaste competenze in tema di diritti fondamentali dallo Stato centrale alle regioni (versione temperata delle tendenze secessioniste della originaria Lega bossiana). Riforme profonde in tandem che ci consegnerebbero ad una nuova Repubblica. Allora è importante constatare che non sono le parole a mancare, sono tutte quelle scolpite nella nostra storia, siamo i figli di Primo Levi, uno dei pochissimi ebrei tornati da Auschwitz, liberati dai sovietici dell’Armata Rossa, siamo figli di quella storia tremenda in cui il fascismo, alleato del nazismo, aveva cacciato un’intera generazione; sono tutte parole collocate nella nostra Costituzione tra i principi fondamentali che devono essere realizzati: eguaglianza, libertà, solidarietà, lavoro, emancipazione, diritti civili e sociali, rappresentanza politica, giustizia sociale, dignità della persona, laicità, autonomia, sviluppo delle cultura e tutela dell’ambiente, internazionalismo, pace e ripudio della guerra.

Parole abbandonate o svuotate del loro significato reale, tradite o piegate alle logiche di convenienza dei governanti di turno e alle ragioni del mercato. Ripartiamo da qui, torniamo alle parole della Costituzione per risalire dal pozzo nel quale siamo finiti. C’è un mondo da costruire. In questo mondo da costruire, messaggi di speranza vengono dall’America Latina, che sta vivendo una seconda ondata progressista, anche se, a differenza della prima ondata con la presidenza Chàvez in Venezuela nel 199 e durata fino al 2014, è marcata da un progressismo moderato. Il nuovo anno vede  al governo delle maggiori economie del subcontinente forze di “sinistra”decise a rafforzare i meccanismi di integrazione regionale in modo da poter cambiare i rapporti di forza con cui confrontarsi con gli Stati uniti. Del resto l’America Latina si trova al centro della disputa, una vera guerra commerciale, tra due grandi potenze: Stati uniti e Cina. Si dovrebbe perciò rafforzare l’alleanza progressista per permettere alla regione di parlare con una sola voce nello scenario internazionale. Una integrazione dell’America latina, su modello dell’Unione europea che consenta una politica di dialogo e di confronto sia con il gigante del Nord, gli Usa, sia con quello asiatico, la Cina, basata sul riconoscimento della propria sovranità. Il primo passo è necessariamente la fine della dottrina Monroe, delle politiche di ingerenza degli Usa, sostituite dal rispetto della sovranità dei paesi latinoamericani.

Non sarà comunque né semplice né lineare. Basta vedere cosa è accaduto l’8 gennaio scorso in Brasile, con l’assalto dei sostenitori dell’ex presidente Bolsonaro al cuore amministrativo della capitale brasiliana, che inevitabilmente ha ricordato quello dei sostenitori di Trump del 6 gennaio 2021 al Campidoglio. Bolsonaro però non è un Trump brasiliano, è molto peggio: è l’erede della fazione più dura della dittatura militare che governò il Brasile dal 1964 al 1985. È espressione del “momento fascista del neoliberismo”visibile in tante parti del mondo e che trova sponde in tutto il continente americano (attentato a Cristina Kirchner in Argentina); fa eco all’egemonia reazionaria in Europa orientale; e crea non pochi imbarazzi al governo italiano, le cui componenti, se non nei modi, nei fini sociali non si distanziano troppo dal loro omologo brasiliano. Perciò bisogna aprire varchi nell’ottundimento generale che genera perdita di sé e violenza;a partire dall’affermazione di linguaggi (gentili e inclusivi), valori (uguaglianza, sorellanza), sentimenti (empatia) e capacità di rivolta contro le ingiustizie. L’idea di un futuro come Bene comune.

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