TEMPI PRESENTI (MARZO 2023)

La guerra in Ucraina è entrata nel suo secondo anno, facendoci quasi dimenticare la pandemia che non è affatto finita, così come le disuguaglianze che hanno continuato a crescere, così come le altre guerre che continuano a mietere vittime, mentre la spesa militare globale, compresa quella italiana, corre più veloce delle pallottole. Insomma, il bilancio di una pace ferita. A morte (copyright rivista “Mosaico  di pace”). Il generale Mark Milley, capo di stato maggiore Usa, in un’intervista del 17 febbraio scorso al Financial Times ha ripetuto: “Sarà impossibile per i russi conquistare l’Ucraina, e molto, molto difficile che Kiev riesca a cacciare Putin dai suoi territori”. Non c’è pace senza rispetto della giustizia, cui hanno sicuramente diritto gli ucraini massacrati da Putin e dalla sua cricca, ma per arrivarci servirà quasi sicuramente un compromesso. Oggi c’è sulla scena un gigante che vuole contare e non è solo il papa: è l’America latina che sembra parlare con la voce del risorto presidente brasiliano Lula che decide di non inviare armi a Kiev e dichiara: Non voglio unirmi alla guerra, voglio fermarla” con un fronte di Stati per la pace.  Eppure il movimento pacifista non riesce ad alzar abbastanza la voce, nonostante aleggia il desiderio di pace, i sondaggi raccontano di un’opinione pubblica contraria a proseguire l’escalation. Naturalmente l’informazione, schiacciata sulle posizioni ufficiali circa la guerra, non ha mai voluto vedere, da quando il conflitto è esploso – o meglio si è allargato, essendo iniziato già nel 2014 – l’esistenza in Italia di una larga fetta di opinione pubblica che è non “utilitaristicamente” pacifista, né filoputiniana, ma crede sinceramente che la guerra, sia specialmente oggi, una pura e crudele follia. Solo che è un sentire disorientato, frammentato, sfibrato. Più in generale è come se l’intera popolazione soffrisse di una sorta di “passione triste”; non la tristezza del pianto o della fatica, ma della delusione o della disperazione. Il Paese è stremato, le persone si dibattono ogni giorno per un lavoro che non c’è o se c’è è mal pagato. Molti hanno a che fare con la mancanza di servizi e vivono la fatica di esercitare responsabilità educative in un mondo nel quale sono sempre più assenti i riferimenti. È vero c’è la Costituzione, il 25 Aprile, ma si ha l’impressione che anche la lotta al fascismo e la difesa della stessa Costituzione siano un lusso che tanti italiani non possono permettersi. Guai a non fare le battaglie, ma serve vicinanza e comprensione. È un bel dire “ti mobilito per difendere la Costituzione” a chi la mattina si alza per andare a lavorare in condizioni precarie, a chi ha una famiglia da mantenere, affitti e bollette da pagare e vive nelle periferie abbandonate al loro destino. 

In un recente articolo sul quotidiano il manifesto, Marco Bascetta osservava che nel nostro Paese i livelli salariali sono tra i più miserabili d’Europa, le pensioni sono al palo, l’inflazione morde, gli ammortizzatori sociali cadono a partire dal reddito di cittadinanza, la rinascita della sanità, enfaticamente promessa in tempo di pandemia, non è più neppure all’orizzonte, il fisco continua a favorire i redditi più alti, la scuola è presa in ostaggio dell’ideologia più retriva e classista che si potesse immaginare. Eppure malgrado tutto questo, non si registra nessuna significativa reazione conflittuale. Chi vota a destra si aspetta l’intervento salvifico di un governo forte. Chi vota a sinistra cerca di coprire le spalle a una disastrosa ritirata. Ma chi diserta le urne (una cospicua maggioranza, il “partito dell’astensione” che si esprime per sottrazione), e perfino chi lo fa con una decisa motivazione politica, non scende in piazza, non anima movimenti di lotta nelle scuole o nei posti di lavoro, come invece avviene negli altri paesi europei. Questa diffusa apatia è oggi un tratto distintivo dell’Italia, dove la sconfitta dei movimenti di lotta è stata più bruciante perché più grandi e radicali erano stati i desideri di cambiamento che avevano veicolato. Si possono cercare molte diverse spiegazioni, ma comunque è da questa stasi che bisogna partire. Con la consapevolezza che per i gruppi dominanti è diventato utile dare ad intendere che il peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di una parte crescente della popolazione è da imputare agli immigrati. La guerra contro i migranti è ormai uno degli elementi fondanti del sistema globale attuale. Intere aree del pianeta – mari, deserti, aree di confine – sono diventati giganteschi cimiteri a cielo aperto, luoghi dove si compiono violenze e vessazioni atroci, e dove a milioni di esseri umani viene negato ogni diritto e ogni dignità.

Da noi abbiamo vissuto la strage di Cutro, Crotone, del 26 febbraio scorso, con il ministro dell’Interno Piantedosi, scaricare sulle vittime la responsabilità del naufragio: la colpa della strage è di chi è morto, 70 bare, e dei superstiti. Noi pensiamo invece alla “sofferenza che stanno vivendo quelle persone dalla spiccata e dalla vigorosa dignità, che preferiscono morire anziché condurre un’esistenza nella miseria e nell’inferno. Quelle persone che rischiano la vita, e tanti l’hanno già persa, solo per annusare, per assaporare, per assaggiare il sapore di quella che noi chiamiamo semplicemente “Vita” (di Seid Visin). E non è un caso che ogni volta che le destre xenofobe di governo mettono mano alle regole sull’immigrazione, i trafficanti brindano perché i loro affari migliorano. Non basta più la condanna, occorre farsi carico del superamento della distinzione tra chi salva e chi è salvato, dato che nascere da una o dall’altra è solo questione di fortuna e non di merito. Occorre “politicizzare” le migrazioni, non solo perché il diritto alla libertà globale di movimento è diventato il terreno di uno scontro globale, ma perché le persone che migrano sono esseri umani che devono disobbedire ai confini degli Stati per poter vivere. Emigrare o morire è questa l’alternativa radicale nel mondo di oggi. È questo il capovolgimento etico e politico necessario, che richiede alleanze tra chi emigra e chi vive nelle società europee di immigrazione dentro una lotta comune per l’uguaglianza, che oggi si traduce, prima di tutto, nella lotta per il diritto all’appartenenza all’umanità. Quella umanità che non è un luogo, ma è una conquista. Perché l’unico confine che vale è quello che separa l’umano dal disumano.

“Erano solo alcuni / Su tutta la terra / Ognuno si credeva solo / D’improvviso furono moltitudine “ (Paul éluard). Un ultimo appello economico e un ringraziamento. Chiedere un aiuto, in questa situazione economica, suona paradossale e pure fastidioso. Tuttavia senza questo aiuto, che si può tradurre semplicemente nel rinnovo della quota sociale (20 euro) la nostra associazione non ha motivo né modo di esistere. Le sconfitte non ci hanno mai impedito di assaporare qualche vittoria: siamo ancora qui, e non ci siamo arresi. Mai. Bisogna avere fiducia, insistere a ricucire le lacerazioni del mondo, anche se a volte sembra che non ci sia più niente da fare, che la partita sia perduta, che ogni forma di resistenza sia stata schiacciata. Infine vogliamo ringraziare di cuore tutte le persone che si sono già tesserate, o hanno rinnovato il tesseramento, in particolare tutte quelle che generosamente stanno sostenendo la nostra campagna a favore dell’Ospedale La Mascota di Managua. Che serva a guarire due, cinque, dieci piccoli pazienti del reparto di oncologia pediatrica, è comunque una goccia di bene in questo mare nero. Perché è proprio vero quello che si legge nel “Talmud”: “Il mondo non si mantiene che per il fiato dei bambini. Il respiro dei bambini è un soffio delicato, ma indispensabile per tutta l’umanità, essendo la promessa sulla quale ciascuno di noi fonda le speranze in un futuro migliore”.

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