TEMPI PRESENTI (maggio 2023)

A tutti diciamo: deponete le armi, sottraetevi all’oppressione dei mercanti della guerra, afferrate strumenti di pace, date l’esempio all’Europa e al mondo, non più di irrazionalità e di sottomissione a forze perverse e dirompenti, ma di capacità di programmare e costruire le vostre patrie in un mondo nuovo, di comprensione e di solidarietà. E voi, responsabili dei paesi più ricchi e potenti del mondo, dagli Usa all’Europa, non sottraetevi alla responsabilità di influire in modo determinante, non con le armi che consolidano la vostra potenza e le vostre economie, ma con efficaci mezzi di pressione e di dissuasione, per fermare questa carneficina, che disonora insieme chi la compie e chi la tollera”. Un appello sottoscritto da don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, e da monsignor Luigi Bettazzi, vescovo di Ivrea, che, se non fosse datato 1993 e rivolto ai Balcani, sembrerebbe scritto oggi, al tempo della guerra matrioska in Ucraina, dove sono almeno tre guerre, una dentro l’altra. “C’è la guerra di aggressione della Russia all’Ucraina e di indipendenza dell’Ucraina dalla Russia; c’è la guerra preventiva di Putin contro la Nato e la guerra per procura della Nato contro Putin; c’è la guerra – dichiarata da Putin, sottaciuta dagli Usa e dalla Cina – sugli assetti futuri dell’ordine mondiale. Nessuna di queste tre guerre ha una posta in gioco esplicita e definitiva – il che rende l’impostazione di un negoziato molto ardua, al di là dell’insipienza dei potenti della Terra – perché tutte e tre sono sovrastate dalla lotta per il riconoscimento di Putin e Zelensky: l’uno vuole che la Russia torni a essere riconosciuta come grande potenza, l’altro vuole che l’Ucraina sia riconosciuta come nazione occidentale a pieno titolo” (Ida Dominijanni).

Per l’Unione europea e per i suoi valori fondativi è una disfatta, nel momento che indossa l’elmetto e si infogna in una semiguerra contro la Russia, fino al punto da rischiare lo scontro diretto con una potenza nucleare; nel momento che ha deciso di sparire come potenza politica, annullandosi nella Nato. Rinunciando ad esigere la fine immediata delle ostilità, ad aprire una trattativa con la Russia che preveda la costruzione nel medio termine di un sistema comune di sicurezza, indipendente dalle strategie Usa, fondato sulla riduzione reciproca e concordata degli armamenti e la normalizzazione delle relazioni commerciali e politiche, col ritiro delle sanzioni. Intanto, noi comuni mortali siamo schiacciati dalla militarizzazione del dibattito pubblico: chi non è allineato alla narrativa ufficiale è un traditore dell’Occidente, chi si oppone all’escalation delle armi è un disertore, chi solleva mezzo interrogativo è un ventriloquo di Putin… perché altre aggressioni, altrove rispetto all’Ucraina, altre distruzioni di massa, altre violazioni del diritto dei popoli all’autodeterminazione non producono la stessa indignazione, lo stesso arsenale di armi, la stessa assistenza militare al paese aggredito, la stessa mobilitazione militante da parte dei media? Se l’Ucraina non fosse da anni nella sfera di influenza degli Stati Uniti e della Nato questo sarebbe uno dei tanti conflitti regionali insanguinati nel disinteresse generale. Dove ci sono sempre aggressori e aggrediti, ma tra gli uni e tra gli altri c’è chi ci guadagna e chi ci rimette, chi crepa e chi sventola bandiere, chi patisce la fame e chi specula. Il mondo è pieno di guerre, sono più di 70 i conflitti senza alcuna visibilità mediatica. Allora “Mandiamo la guerra fuori dalla storia”, smantelliamo gli armamenti, costruiamo un’Europa dai Pirenei agli Urali che unisca tutti i Paesi del continente mettendo l’una accanto all’altra e loro culture, senza nessun esercito e con un welfare imponente, consentito proprio dal risparmio delle spese militari.

Certo poco più che pura utopia nell’Occidente attuale. Quell’Occidente che, in realtà, non dovrebbe dare lezioni a nessuno perché ha rinnegato i propri valori a favore dell’ipertrofia del profitto, le principali democrazie occidentali preferiscono gli affari con i peggiori tagliagole del mondo alla difesa dei diritti, gli Stati Uniti, la più grande “democrazia” del pianeta ha fatto della democrazia stessa il suo più mortale prodotto di esportazione, rovesciando governi e scatenando guerre criminali. Vessa con un embargo criminale la piccola Cuba, mentre fa affari con i peggiori dittatori in nome dei suoi interessi nazionali. Dietro una retorica a favore della democrazia e del rispetto dei diritti umani, si arroga il diritto di decidere quale deve essere la direzione politica dell’isola e per punire il governo socialista provoca miseria e fame.  Noi crediamo che i grandi valori scaturiti dalla migliore cultura occidentale – e non dall’Occidente tout court – sono diventati patrimoni collettivo di tutti gli esseri umani che credono nell’uguaglianza, nella libertà e nella giustizia sociale in ogni angolo della terra, come afferma Moni Ovadia. Proprio in nome di questi valori, mentre ci chiedono di guardare verso Kiev, e mentre lo facciamo ogni giorno, giriamo però lo sguardo anche lungo la rotta delle altre “migrazioni”, figlie di altri conflitti. Perché puntualmente davanti ad ogni nuova tragedia e naufragio, finita l’attenzione mediatica e spenti i riflettori, guardiamo lì dove gli esseri umani (“I topi vivono meglio, i topi hanno più dignità”), sono dimenticati in un inferno perenne di baracche. Purtroppo dei migranti, delle loro rotte si parla sempre come se si trattasse di incidenti. Ma non è così: la responsabilità di quanto accade non è delle condizioni climatiche, della forza del mare, dei fiumi o dei burroni, bensì dell’attuale funzionamento delle politiche migratorie, perciò si spinge ad odiare chi sta sotto, per evitare di lottare insieme contro chi sta sopra.

È vero, servirebbe un’alternativa radicale, una rivoluzione copernicana, ma a guardarsi intorno, nell’Italia attuale, sembra la cosa più lontana. Da un evento sconvolgente come la pandemia non è uscito un rilancio del sistema sanitario pubblico. La consapevolezza della catastrofe climatica è aumentata, ma non è sufficiente a imporre una rapida e decisa inversione di rotta. L’invasione russa dell’Ucraina sta producendo un riarmo generale e una nuova divisione in blocchi: nemmeno il rischio nucleare spinge a ripensare le relazioni internazionali e limitare gli arsenali bellici. Bisogna però ripartire anche se le forme organizzative di cui oggi avremmo bisogno sono assenti o drammaticamente deboli, e se abbiamo analisi valide del presente e buone idee per il futuro, manca il luogo e mancano gli strumenti per trasformare quelle analisi e quelle idee in elementi di un’azione politica collettiva, diffusa e persuasiva. Così non riusciamo ad incidere sulle agende politiche nazionali e dell’Ue;  non riusciamo a parlare, a raggiungere, quella massa di persone che come noi subisce la crisi del nostro tempo ma resta chiusa in una solitudine arrabbiata, terreno di coltura delle destre. Ci vergogniamo profondamente dello stato abietto di questo Paese, ma bisogna reagire e ripartire, non cedere al nichilismo, saper saldare le battaglie sociali e civili, unire le lotte, coltivare una capacità espansiva della solidarietà con gli altri e con il mondo. Insieme agli altri si diventa protagonisti: la politica è questo. Il declino della politica è rinchiudersi nell’individualismo. L’assenza della politica significa infelicità: l’infelicità dell’isolamento. Isolamento personale e del Paese.

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