Libri: “Marianella & i suoi fratelli” Giampaolo Petrucci

“Quello che precisamente fece Marianella” fu di “essere fedele all’impegno preso nei confronti di questo sofferente popolo salvadoregno, fedele fino a donare la vita per la liberazione e la pace del suo popolo nel contesto di una guerra civile durata dodici anni”. Con queste parole Ana Ortiz Luna, sorella di Ottavio Ortiz, ucciso in Salvador nel 1978, introduce la vicenda di Marianella Garcia Villas, l’avvocata dei poveri che ha incarnato le sofferenze e le attese del popolo centroamericano, narrata nel volume “MARIANELLA E I SUOI FRATELLI. Dare la vita per i diritti umani in Salvador” (Icone edizioni, pp. 256, €. 14,00. Il libro, senza spese aggiuntive, può essere richiesto ad ADISTA tel.06.6868692 e-mail: abbonamenti@adista.it)

Il libro – scritto nel 1983 da Raniero La Valle (giornalista e scrittore, già Senatore della Sinistra Indipendente) e Linda Bimbi (esperta di America Latina e responsabile della Sessione Internazionale della Fondazione Lelio Basso per il diritto e la liberazione dei popoli) – viene ora ristampato in occasione del 25° anniversario dalla morte di Marianella , “perché si riavvivi la memoria di questa scomoda martire della giustizia e della pace”.
L’opzione di Marianella per gli oppressi
Nata nel 1948 da madre salvadoregna e padre spagnolo, Marianella a 14 anni prese coscienza per la prima volta della condizione dei campesinos, vittime della miseria e della feroce repressione governativa nelle campagne. I poveri non hanno nulla – le insegnavano nella scuola “per ricchi” che frequentava – nemmeno Dio. Le suore – raccontano La Valle e Bimbi – le dicevano che “bisognava andare a farglielo conoscere; e ciò non corrispondeva a quello che si leggeva nel Vangelo, dove sta scritto che Gesù era amico dei poveri, e che il Vangelo era prima di tutto per loro”. La dedizione per gli ultimi non si caratterizzava, nell’esperienza che Marianella andava maturando, come mera concessione o beneficenza calata dall’alto. Significava, per lei, mettersi in gioco in prima persona, farsi povera tra i poveri. “Marianella pensava che bisognasse lavorare col popolo, e non lavorare per il popolo e scendere a salvarlo”. Nel confrontare quanto accadeva intorno con il messaggio di liberazione del Vangelo, maturò la sua vocazione politica ed elaborò il concetto di “peccato sociale”, che era quello per cui le ricchezze in mano di pochi imprigionavano nella miseria tutto il popolo; si propose dunque di lavorare per estirpare questo “peccato”, ponendo le premesse per quella “opzione preferenziale per i poveri” che sarebbe stata poi la linea pastorale di monsignor Romero.
Tra il 1974 e il 1976 Marianella fu deputata della Democrazia Cristiana salvadoregna. Ma i rapporti tra le componenti progressiste del partito e la dirigenza erano già allora destinati a compromettersi: di chiara ispirazione europea e molto vicina alle gerarchie ecclesiastiche, la Dc del Salvador incarnava sempre più quell’ansia anticomunista che avrebbe finito per incontrare gli interessi dell’alta borghesia e dei militari. Il divorzio con il partito si concretizzò nei primi anni Ottanta, quando Marianella abbandonò il Parlamento e fu eletta presidentessa della Comisiòn de Derechos Humanos, organismo non governativo nato nel ’78 per offrire sostegno legale alle vittime del regime. Intanto, la Dc si preparava a diventare una forza governativa a tutti gli effetti, stringendo alleanze con i conservatori e isolando le componenti contadine e studentesche. L’impegno di Marianella in Commissione coincise con l’escalationdella violenza militare, che colpiva tanto i leader della società civile quanto i membri della Chiesa, impegnati nella denuncia dei crimini del regime.
L’attività presso la Commissione costò a Marianella diffamazioni e violenze d’ogni genere. Nonostante le torture, subite più volte, Marianella riusciva comunque a “socializzare” il dolore, a trasformare il suo corpo martoriato nel corpo di un intero popolo oppresso e, così, a proseguire la lotta. Era la sua risposta al “peccato sociale”, che opprimeva non tanto individui isolati quanto un popolo intero. “La mia storia”, disse Marianella, “è parte della storia di tutto il popolo”, “quello che è successo a me è successo a migliaia e migliaia di uomini e donne in tutto il Paese. Il mio è un caso comune”.
La Chiesa salvadoregna sceglie il popolo
In Salvador la violenza si perpetrava impunita, grazie ai massicci finanziamenti degli Usa in chiave anticomunista e sotto gli occhi della comunità internazionale e della Chiesa stessa. Il silenzio delle gerarchie fece molto soffrire chi, come Romero e Marianella, aveva cercato proprio nel Vangelo il fondamento dell’azione politica. Il 14 marzo 1977, durante i funerali del gesuita Rutilio Grande, assassinato del regime, mons. Romero disse che “la chiesa non poteva rimanere assente nella lotta di liberazione dei popoli affamati, miseri, emarginati”, che “la fede non ha soltanto un senso verticale, spiritualista, ignara della miseria che la circonda”.
Le omelie del Monsignore e la rapida diffusione della pastorale sociale nelle campagne cominciarono presto a dar fastidio al regime. Con l’uccisione dei primi tre preti – Rutilio Grande che lavorava con i contadini, Alfonso Navarro inserito nella media borghesia urbana, e il prete operaio Ernesto Barrera – il regime cercò di spezzare il “rapporto della nuova Chiesa con ciascuna classe sociale”. Il primo timido accenno di protesta si ebbe solo nel ’78, quando la Chiesa del Salvador proclamò lo “stato di persecuzione”. “La persecuzione si rivolgeva contro quei cristiani, preti, religiosi e laici, che nell’assoluto di Dio includevano il regno di giustizia e si sforzavano di mediarlo nella storia, non più cavalieri dell’Assoluto, ma cavalieri dell’oppresso”.
Perseguitare la Chiesa non significava, infatti, attaccare l’istituzione, ma la sua missione e il suo corpo, ossia il popolo. Durante i funerali delle vittime della repressione, Romero ripeteva sempre che “il conflitto non è fra la Chiesa e il governo, ma fra il governo e il popolo, e la Chiesa è con il popolo”. Dopo la morte di Romero, il 24 marzo 1980, la situazione precipitò e il lavoro della Commissione si feve più intenso – anche a livello internazionale – per denunciare le sparizioni, le esecuzioni sommarie, le stragi sempre più frequenti, per identificare i corpi delle vittime e darne notizia ai familiari. Una tragedia, quest’ultima dal volto di donna: sempre più madri si presentavano alla Commissione per avere notizie dei figli, madri “che generano figli e poi si pentono di aver aperto l’utero alla speranza, quando li ritrovano maciullati ai crocicchi delle strade, o piagati e trafitti in un letto d’ospedale”.
Tante madri che “come la madre del nostro Liberatore, vanno raccogliendo ogni giorno i loro figli, non crocefissi come venti secoli fa, ma torturati, percossi e mitragliati, perla stessa accusa rivolta a Lui, di essere sovversivi e agitatori”.
Con questo stesso capo d’accusa, il 13 marzo 1983, mentre indagava sull’uso di armi chimiche da parte del regime Marianella venne rapita, torturata ed uccisa, quindi abbandonata sulla strada. Marianella, profondamente pacifista, amava definirsi una piccola donna del Salvador che, come molte altre, aveva legato il proprio destino a quello del suo popolo.
“Così muore, con grandezza, la gente comune nel Salvador: dandosi il cambio, senza pretese e senza fanfare, nel compito lasciato interrotto, aspettando il proprio turno”.
“La gente comune sa vivere, a volte senza rendersene conto, dimensioni di grandezza che nessuna epopea si ricorderà mai di celebrare”.
(Recensione di Giampaolo Petrucci, tratta da “ADISTA 15 marzo 2008”.)